2 dicembre 2020. Stephanie Frappart, francese classe 1983, diventa il primo arbitro donna della storia a dirigere una partita di Champions League maschile, tra Juventus e Dinamo Kiev.
La Champions League, la coppa dei sogni, la competizione che ogni giovane calciatore spera di giocare e che ogni arbitro di dirigere, dopo anni di sacrifici, passione e determinazione.
Tutti elementi che di certo caratterizzano anche le ragazze di Aia Udine: Antonella Agustina Cataldo, Martina Elizabeth Croce, Elisa Gambin e Marta Tononi. Difatti, la nostra “quota pink”, come piace a loro farsi chiamare, non è solo una tra le parti più attive dell’associazione, ma anche e soprattutto un esempio per le loro coetanee: la dimostrazione che la nostra attività è proprio per tutti, aperta ad ogni tipo di persona e chiusa davanti a qualsiasi forma di barriera.
“Il mondo in cui ci troviamo non è più soltanto bianco o nero, e tanto meno si divide in blu e rosa: di questo, ne ho la conferma ogni qual volta al mio arrivo al campo i custodi mi accolgono sorridenti, senza essere sorpresi del fatto che il direttore di gara sia una donna”, esordisce Antonella, catapultata fin da piccola nel mondo del calcio e avvicinatasi all’ universo Aia all’età di sedici anni. Da quel momento, è stata sempre presente ad ogni allenamento, così come lo è nelle prime poltrone delle nostre RTO, e perfino in tutte le nostre attività più informali, ma quanto mai essenziali, come le cene dopo le riunioni o gli esordi dei nostri colleghi.
Stesso discorso vale pure per Martina, classe 2000 e arbitro da circa 3 anni, che sottolinea i motivi che la spingono, con divertimento ed ambizione, a cercare di raggiungere i suoi piccoli traguardi sportivi: “questa esperienza mi sta dando tanto sotto molteplici punti di vista. Mi arricchisce e mi forma come persona, facendomi scoprire e modellando alcuni aspetti del mio carattere, ma mi aiuta anche fisicamente, spingendomi giorno dopo giorno a lavorare sui miei limiti, cercando di superarli”.
Anche Elisa, arbitro da circa due anni ma appassionata del calcio fin da piccola, è d’accordo nel definire questa attività come “una scuola di vita, come una palestra in cui allo stesso tempo pratichi uno sport, cresci caratterialmente e conosci nuove persone”.
E poi c’è Marta, che grazie a questa esperienza è finalmente diventata parte attiva di quel mondo, il calcio, che per lei ha sempre significato emozione e passione, da condividere con il suo papà: “lo stupore e l’emozione del momento in cui gli ho detto che sarei diventata un arbitro lo vedo ancora, quando gli dico che la domenica dirigerò un’altra gara”.
Eppure non è sempre tutto così piacevole ed entusiasmante: ne abbiamo avuto la dimostrazione anche poco tempo fa, sui campi di gioco, quando una nostra collega friulana è stata ricoperta di insulti in seguito alla concessione di un rigore. Perché, come sottolinea Marta, “in questi tre anni di Aia le offese e le frasi maschiliste non sono di certo mancate”. Sguardi e commenti, come “dovresti cambiare mestiere, vai a fare le sfilate di moda” o riferimenti ad epoche ormai antiquate, come “le donne non dovrebbero arbitrare”.
E quindi perchè continuare? Quando lo abbiamo chiesto (in sedi separate) a queste ragazze, siamo rimasti veramente sorpresi dall’incredibile comunanza delle loro idee: “Mai rispondere, meglio rimanere concentrati sulla partita e metterci ancora più determinazione”, dice Marta; “La voglia di raggiungere i miei obiettivi va oltre a qualsiasi cosa, ed è più forte di ogni critica e giudizio”, ribadisce Martina; “In tutti i momenti in cui mi veniva in mente di lasciare ripensavo a quale fosse il vero motivo per cui ho iniziato. E se ancora adesso sono un arbitro vuol dire che la voglia di realizzare quegli obiettivi va oltre qualsiasi altra cosa, ed è più forte di ogni critica o giudizio. Tutt’ora andare ad arbitrare le domeniche mi piace molto, soprattutto se ho un’oretta di macchina perché nel mentre mi rilasso ascoltando musica e penso a come migliorare partita dopo partita e non ripetere gli errori della domenica precedente”, esclama Elisa; e poi c’è Antonella, che facendo proprio uno dei nostri slogan, “occhi della tigre”, sottolinea come di certo non basteranno alcuni sguardi o commenti per farle rinunciare ai cartellini.
Antonella, Elisa, Martina e Marta ci dimostrano che questa attività non ha più colori, ma solo sfumature: alcune belle e alcune meno piacevoli, ma che di certo non bastano a fermare la loro passione per questo nostro sport. Un’ attività che stando ai numeri nazionali, vede di anno in anno sempre più ragazze al suo interno.
E magari tra poco guardando le partite della nostra “Coppa dei sogni” non parleremo solo più di Stephanie Frappart, ma di tante altre che hanno seguito le sue orme, proprio come le nostre ragazze.